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Filosofie del corpo

~ L'incarnazione è il dato a partire dal quale un fatto è possibile. G. Marcel

Filosofie del corpo

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Il corpo e la morte

20 lunedì Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Corpo, Cura, Etica del corpo, Etica di fine vita, Morte

Tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare al vita dalla morte.                                                        Jean Baudrillard

La corporeità degli esseri umani è in un certo senso all’origine della giustizia umana, poiché in quanto unico tratto comune a tutti, universale, ma pur sempre plurale, eterogeneo, differenziato, tuttavia è anche ciò che accosta e accomuna tutti gli esseri umani nella stessa vulnerabilità, nella medesima precarietà, esponendo ognuno indistintamente – ricchi e poveri, padroni e servi, signori e schiavi – a quell’estrema miseria verso cui è proteso il destino umano, ovvero la morte.[1]

In un’epoca che si avvia a diventare totalmente artificiale, dove la cultura soppianta in tutti i modi la natura, anche la morte come fenomeno naturale è sempre più. In passato la morte era accettata come conclusione inevitabile dell’esistenza, e compresa perché socialmente condivisa. Una cultura, quella postmoderna, all’insegna del consumo, del piacere non può che promuovere felicità e soddisfazione di ogni desiderio, anche quello di combattere e magari sconfiggere la morte. Essa appare come un fenomeno individuale, per questo incomprensibile da parte del singolo, un evento bruttale ed ingiusto. La strategia della “decostruzione della mortalità” di cui parla Bauman ha rafforzato l’idea che si possa evitare al morte scoprendo da che cosa si è stati colpiti; di pari passo la “decostruzione della immortalità” tende a cancellare l’irreversibilità attraverso la soddisfazione di piaceri materiali, riducendo la trascendente con la momentaneo, l’effimero. Gli interventi culturali sul corpo dei morti, siano essi di tipo conservativo, distruttivo o modificatorio, sembrano essere davvero qualcosa di irrinunciabile, secondo Francesco Remotti, in tutte le società. La vestizione del cadavere, la cosmesi, la mummificazione, la cremazione, le mutilazioni, il cannibalismo, l’imbalsamazione ci dimostrano come non si riesce ad astenersi di trattare il corpo, persino quando è privo di vita. L’essere umano cerca sempre di evitare di confrontarsi con quell’idea insopportabile della decomposizione che priva il corpo dei suoi segni e del suo legame con la vita riducendolo a pura sostanza, un corpo-carne, un corpo che scompare.

Morte truccata e idealizzata con i colori della vita: l’idea segreta è che al vita è naturale, la morte contro natura, bisogna dunque naturalizzarla, impigliarla in un simulacro di vita.[2]

È ormai noto che negli Stati Uniti i funerali sono una vera e propria industria: le bare diventano un oggetto artistico, l’architettura mortuaria viene ridimensionata per essere un luogo esteticamente piacevole, il tradizionale becchino è ormai un funeral directors, un uomo d’affari. Il morto viene esposto, nelle cosiddette funeral home, come se fosse a casa, alla scrivania, alla poltrona, come se fosse vivo. L’obiettivo è quello di prolungare la presenza del morto, contando sul conforto collettivo, e dare l’illusione della vita per superare la ripugnanza, depurando la morte da tutto ciò che ci inquieta. C’è chi pensa di creare un cimitero in Rete, il Requiescat cemetery, dove chiunque può rendere pubblico il proprio dolore facendo innalzare un monumento funebre virtuale per i morti. Esistono anche delle tombe dotate di monitor per poter rivedere il morto da vivo, un videomessaggio registrato prima della morte. Addirittura una società americana, LifeGem Memorials, ha proposto di eliminare i cimiteri, mettendo le ceneri dei morti nei diamanti e incastonarli in una nello da portare con sé. D’altra parte:

L’uomo è un essere debole e vulnerabile nel quale la morte può entrare attraverso tutti gli interstizi dell’organismo, insinuarsi nel più piccolo poro dei suoi tessuti. Questa precarietà della vita umana si chiama finitezza. C’è nella morte una dimensione che ci sfugge e ci sfuggirà sempre. Questa aporia ci rimanda alla misteriosa, insolubile contraddizione che oppone il pensiero alla morte: il pensiero ha ragione contro al morte giacché ne ha coscienza, ma la morte ha ragione del pensiero perché annienta l’essere pensante. Un essere pensante-mortale, mortale in quanto essere, immortale per il suo pensiero, non è in se stesso una specie di ibrido non vitale, un paradosso incarnato?[3]

La morte è inconciliabile con l’ideale edonistico postmoderno, per questo si tenta in tutti i modi di sopprimerla, esorcizzarla, renderla innocua, spettacolarizzarla. La morte non ha più un valore ontologico – esistenziale , “la possibilità dell’impossibilità” di matrice heideggeriana, una morte mantenuta come possibilità, che consente una esistenza autentica, di essere una totalità. Piuttosto è l’”impossibilità della possibilità”, di matrice husserliana, l’evento di cui il soggetto non può essere padrone e rispetto a cui cessa di essere tale, lo ribalta in passività, lo conduce fuori da sé. È l’alterità assoluta. Per questo motivo il fare umano cerca in tutti i modi di non mostrarsi impotente dinanzi alla morte: quel margine che rimane dopo la morte viene sfruttato al meglio per imprimere i segni di una cultura, una concezione antropologica. Un tentativo estremo di lasciare sul corpo, un corpo che sta per essere consegnato ad una natura indifferente ai “sogni” umani di fare del proprio corpo ciò che si desidera, quel che resta di una forma di umanità che ci si è tanto impegnati a costruire e sfuggire alla disumanità, che è la morte, sempre in agguato.

[1] Francesca Romana Recchia Luciani, “Concepire l’equilibrio”: la forza, la giustizia, l’obbligo e il loro legame con la corporeità attraverso Simone Weil, in Diritto, giustizia e logiche del dominio, 2007, Morlacchi editore.

[2] Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli.

[3] Vladimir Jankélévitch, Il paradosso della morale, 1987, Firenze, Hopefulmonster.

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Corpo e mente

20 lunedì Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Cervello, Corpo, Etica del corpo, Filosofia della mente, Mente, Psicologia

Una leggenda narra che nel 1580 Leone ben Bezabel, rabbino di Praga, costruì un’enorme figura umana di argilla chiamata Golem. Ad essa era affidato il compito di difendere il popolo ebraico attraverso la parola emet impressagli sulla fronte che gli dava la vita. Quando diventava troppo violento bastava cancellare la prima lettera, che così diventava met, cioè morte, e riportarla al suo stato originario di massa informe che è il significato letterale di Golem. Nel Novecento il mito ebraico è stato più volte ripreso, come metafora di un sogno antico dell’uomo, a proposito della rivoluzione informatica, soprattutto nel campo delle telecomunicazioni e della robotica. In questi contesti di speranze e attese fiduciose fiorisce l’idea che le macchine, un giorno, possano pensare e svolgere mansioni specificamente umane e il progetto di dar vita a macchine intelligenti, molto simili, se non addirittura indistinguibili dalla mente umana. La mente è stata sempre paragonata ai prodotti artificiali più complessi  e sofisticati di ogni epoca, in ultimo al computer: la mente, simile ad un software, non sarebbe altro che l’insieme delle informazioni contenute nel cervello, simile ad un hardware. I primi programmi di Intelligenza Artificiale (IA) furono elaborati in America verso la fine degli anni Cinquanta con l’obiettivo di imitare non la mente, bensì le capacità di calcolo, quindi solo gli aspetti  computazionali e razionali di quest’ultima. Il logico e matematico Alan Turing è stato un pioniere in questo campo, elaborando un test che porta il suo nome, ideato per capire “come si deve comportare una macchina per autorizzarci a pensare che essa pensi”. La risposta fu: se un essere umano non riesce a distinguere le prestazioni intelligenti di una macchina da quelle di un uomo, se ne può dedurre che ha di fronte una macchina intelligente, e che dunque le macchine possono competere con gli esseri umani. Sebbene esse superino di gran lunga l’intelligenza naturale riguardo la capacità di memorizzare, elaborare, gestire dati, qualora si trovino alle prese con ragionamenti o fatti che presuppongo conoscenze derivanti dal contesto di vita, o che richiedono fantasia e intuizione, si trovano in seria difficoltà. Alla IA manca la plasticità, la versatilità e la flessibilità della intelligenza umana, ma soprattutto la coscienza di sé e di quello che sta svolgendo.

Sono convinto che, per quanto l’intelligenza artificiale possa svilupparsi e progredire, non sarà mai in grado di elaborare un programma capace di interagire con il mondo e di orientarsi con successo nelle scelte complesse, ma talvolta anche semplici e  banali, che caratterizzano la vita quotidiana. Credo che sul piano teoretico l’IA si stia rivelando un grande fallimento, e non vedo sviluppi futuri, almeno in relazione ad una comprensione filosofica del mondo.[1]

In altri termini la capacità della mente di attribuire un significato non dipende dalla mera connessione di numeri e vocaboli, ma dai contesti sociali e linguistici in cui l’uomo, il suo corpo, il suo cervello sono inseriti. Il linguaggio, secondo Wittgenstein, non è astratto, è una forma di vita e dipende dal contesto. Il famoso esperimento della “stanza cinese” di John Searle, allo stesso modo, differenziando la capacità di combinare i simboli (sintassi) dalla comprensione del significato (semantica), attribuisce la prima alle macchine e la seconda esclusivamente agli esseri umani. Il cervello è una macchina biologica cosciente, e la coscienza, pur derivando da processi cerebrali, non è riproducibile, poiché è fatta di processi mentali interiori, di carattere qualitativo e soggettivo. L’IA è erede di una tradizione riduzionista, acontestualista del pensiero filosofico e soprattutto dualista: l’attenzione è puntata unicamente sul cervello, la mente e la facoltà di pensare scissi, separati, e assolutamente indipendenti dal corpo, dalla dimensione propriamente carnale dell’essere umano. Gli scienziati sono piuttosto fiduciosi nel credere che a fine secolo si potrà trasferire una persona, e tutte le sue irriducibili caratteristiche in una macchina (robot), che allora diventerà letteralmente la sua fotocopia. Come se quella delle macchine fosse semplicemente una delle tante tappe dell’evoluzione della specie umana.

Lord Martin Rees, docente di Astrofisica all’Università di Cambridge e astronomo della Regina, la vede un po’ diversamente: i robot sono utili per lavorare in ambienti proibitivi per l’uomo — piattaforme petrolifere in fiamme, miniere semidistrutte da un crollo, centrali in avaria che perdono sostanze radioattive — oltre che per svolgere mestieri ripetitivi. Ma devono restare al livello di «utili idioti: la loro intelligenza artificiale va limitata, non devono poter svolgere mestieri intellettuali complessi. Con occhi rivolti più alle glorie del passato che alle speranze e alle incognite di un futuro comunque problematico, egli propone una ricetta  anacronistica ed estrema che si spiega con l’angoscia che prende molti di noi davanti alla rapidità con la quale la civiltà dei robot — della quale abbiamo favoleggiato per decenni e che sembrava destinata a restare nei libri di fantascienza — sta entrando nelle nostre vite.[2]

Alle macchine mancano molte caratteristiche ontologiche degli esseri umani: l’intuito, la fantasia, la creatività, una storia personale, l’autonomia, un ruolo in società, un rapporto di interazione con l’ambiente circostante, stati d’animo ed emozioni, capacità di apprendimento e cognitive superiori, tutte possibili grazie al possesso di un corpo concreto, individuale e materiale, garante di identità e riconoscimento. Una macchina non nasce e non muore, non prova piacere né dolore: potremmo dire, in termini heideggeriani, che “la macchina è senza mondo”.  È un semplice strumento, un mezzo utile, pronto, destro per l’uomo.[3] Ci troviamo di fronte ad una reale necessità o ad un puro spirito di progresso? Si crea qualcosa che davvero serve o ci si appella al mito “tutto è possibile” per raggiungere la perfezione?

[1] Hubert Dreyfus, What computers can’t do: the limits of artificial, 1972.

[2] Massimo Gaggi, E il robot prepara cocktail e fa la guerra, 26 gennaio 2014, Corriere della sera. La lettura.

[3] Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, 1992, il Melangolo.

Il corpo dentro lo schermo

20 lunedì Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Automa, Corpo, Depersonalizzazione, Etica del corpo, Macchina, Mass media, Social network, Virtuale

È l’interesse l’unico antidoto alla noia, non il divertimento.    Alessandro D’Avenia

La realtà postmoderna non ha forse più nulla di reale e tangibile, piuttosto risulta impalpabile, un’esperienza de-realizzata. Il confine tra reale e immaginario è sempre più sfumato tanto da assorbire la realtà dentro uno schermo. Lo dimostra l’ossessiva presenza degli schermi nella nostra vita: dagli enormi schermi piatti delle televisioni a quelli dei computer, dei videogiochi o degli smartphone, che si integrano sempre più con i corpi degli utenti e i loro movimenti. Lo schermo annulla la distanza tra lo spettatore e la scena, lo invita a immergersi dentro, gli offre una realtà a portata di mano, ma su cui la mano non ha alcuna presa.  Jean Baudrillard la chiama “fase video”, quella avuto inizio con la tv, che all’inizio si presentò come un semplice canale per trasmettere informazioni e spettacoli, poi progressivamente ha inglobato il corpo e l’esistenza dello spettatore diventando pubblicizzazione della vita privata. Il nuovo genere dei reality show, come il Grande fratello che presenta  pezzi di realtà quotidiana, funziona proprio perché riesce ad essere più convincente della realtà vera, e a diventare dunque un modello educativo. In passato era la “tv verità” che trasmetteva fatti drammatici e straordinari (Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura, Candid camera), oggi non conta dire il vero, ma trasformare anche la quotidianità più banale e auspicare il coinvolgimento, l’immedesimazione dello spettatore. Guardando un reality show si è affascinati dal fatto che gente comune può diventare celebre, senza sforzi o capacità particolari: il mito del successo facile.

Il reality tende a non avere limiti e prosegue nella sua corsa al rialzo che lo porta ad assumere forme sempre più vicine a quelle del romanzo Acido solforico, dove si racconta di un reality show dal titolo Concentramento. Persone scelte a caso per strada vengono deportate su treni blindati in un campo di concentramento ricostruito con le sue tragiche sembianze: le baracche di legno, il filo spinato, le umiliazioni, le punizioni corporali. Settimanalmente il pubblico sceglie, con il televoto, il prigioniero destinato a morire. Gli spettatori, insomma, non solo soddisfano il loro voyeurismo morboso, ma diventano complici dei carnefici.[1]

Pubblico e privato si fondono, ma il privato si annulla nel pubblico, espropriando il singolo delle sue caratteristiche più personali che sono appunto private. Codeluppi parla di una “mondializzazione degli affetti e di “sincronizzazione dell’emozione” perché gli eventi sono amplificati a dismisura dagli schermi dove tutti possono provare le stesse emozioni. “Tutto è preparato e messo in scena per l’occhio della videocamera, che lo registra e lo certifica attribuendogli la patente di vera realtà”: il risultato non è una forma di comunicazione, bensì un contatto ossessivo con il pubblico. Probabilmente il fatto di essere spiati costituisce una rassicurazione che la vita nostra sia interessante per qualcuno, garanzia di autenticità, conferma che si è vivi. Nel programma Uomini e donne, le telecamere sono puntate invece sui “tronisti”, donne o uomini seduti su un trono,  e su schiere di corteggiatori, pronti a sfoggiare le loro migliori armi di seduzione per conquistarli, e li seguono  persino nei loro incontri privati. Ciò che conta è mettere in mostra e fare spettacolo con il proprio corpo e ridurre una relazione sentimentale ad una spettacolarizzazione. I media sono all’origine della smaterializzazione del corpo, perché la vita sociale è condotta solo all’interno di reti telematiche, digitali. Siamo perennemente connessi: avvolti in una fitta rete di telefonate e messaggi ci sentiamo invulnerabili, perché in qualunque luogo, in qualunque momento le connessioni restano inalterabili. Solide rocce circondate da sabbie mobili. Non si è mai fuori o via, si è sempre dentro, dentro la rete si è al sicuro.

I messaggi si rincorrono freneticamente sul display. Le tue dita sono perennemente occupate a premere tasti. Non perdi mai di vista il tuo cellulare. Senza di esso non andresti da nessuna parte (nessuna parte è lo spazio senza cellulare, oppure un cellulare fuori campo o con la batteria scarica). Dentro la rete puoi sempre cercare riparo allorché la folla che ti circonda diventa troppo caotica per i tuoi gusti. Una massa di individui isolati: uno sciame, in cui ogni singola unità fa la stessa cosa ma nulla viene fatto in comune. I telefoni cellulari non hanno creato lo sciame; lo sciame era in attesa dei vari Nokia, Ericson e Motorola bramosi di servirlo. Se non esistesse uno sciame, a che servirebbero i cellulari?[2]

La costante presenza della “prossimità virtuale” rende le relazioni interpersonali sempre più orientate verso la distanza, la lontananza e l’immaginazione: lo schermo di un cellulare ci proietta in una dimensione più ampia, flessibile, variegata, avventurosa rispetto a qualsiasi riassetto dei corpi fisici, a qualsiasi “guardarsi negli occhi”. Ci addestra a guardare senza vedere. Una prossimità che dunque non richiede più la vicinanza fisica, perché le connessioni sono istantanee, ma così superficiali e fallaci da rendere impossibile la creazione di un vero e proprio legame affettivo.

La distanza non è un ostacolo al tenersi in contatto, ma il tenersi in contatto non è un ostacolo all’essere distanti. La prossimità virtuale, che è diventata la “realtà” soppiantando quella personale, diretta, faccia-faccia, poliedrica e polifunzionale, può essere interrotta, sia concretamente che metaforicamente: basta premere un pulsante.[3]

In alcuni casi non esiste nessuna vita sociale, bensì un semplice isolamento dell’individuo, e del corpo. Come nei videogiochi che offrono la possibilità di vivere una vita parallela che viene però percepita come  reale, perché dotata di grande ricchezza e densità comunicativa. Il successo è assicurato dalla grande libertà di cui il giocatore dispone che gli dà una sensazione di dominio, controllo e potere.

Nella pratica dei videogiochi ogni giovane, in una sorta di autismo informatico, diventa padrone del mondo in battaglie individuali contro nulla, su un percorso che non conduce da nessuna parte. È in questa onnipotenza virtuale che le nostre società sembrano abbandonare la sfera del pensiero.[4]

Tutto è studiato per rendere sempre più labili e sfumati i confini tra realtà e fantasia, in modo che anche nella realtà, come nel gioco, ci si possa comportare come in un mondo fittizio, in cui nulla ha conseguenze esterne al mondo del gioco. Ma se tutto sembra possibile nulla è più reale, la realtà risulta così svuotata di una qualsiasi consistenza ontologica. La “realtà” degli schermi ci “libera” apparentemente  dalla necessità di far fronte alle situazioni pragmaticamente perché sappiamo che non avranno conseguenze immediate su di noi (ma nel tempo si). È un modo per colmare disagi e insoddisfazioni, costruendo un’identità ideale, un rifugio consolatorio, una sorta di divertissement pascaliano volto ad obliare, sviare, allontanare la noia, le molteplici occupazioni, e la vita stessa. Che emozioni potrà mai dare uno schermo a differenza di quella che Simone Weil definiva “l’indefinibile influenza della presenza umana”, di un corpo “vivo”?

[1] Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, 2007, Torino, Bollati Boringhieri.

[2] Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, 2011, Bari, Laterza.

[3] Ivi.

[4] Miguel Banasayag, Gerard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2008, Milano, Feltrinelli.

Il corpo medicalizzato: l’ospedale come regno dell’umano

20 lunedì Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Corpo, Cura, Etica del corpo, Etica della cura, Etica della medicina, Filosofia della medicina, Malattia, Medicalizzazione, Medicina, Ospedalizzazione, Salute

 Il luogo dell’ansia metafisica.                                    Dino Buzzati

Agli albori dell’umanità, prima di ogni vana credenza, prima di ogni sistema, la medicina nella sua interezza risiedeva in un rapporto immediato della sofferenza con ciò che l’allieva. Era un rapporto d’istinto e di sensibilità, più ancora che d’esperienza; stabilito dall’individuo tra sé e sé, prima di essere preso in una rete sociale. Prima di essere un sapere, la clinica era un rapporto universale dell’umanità con se stessa: età di felicità assoluta per la medicina.[1]

Il corpo medicalizzato è un semplice insieme di organi, un oggetto “parcellizzato”, e l’ospedale una sorta di prigione, un luogo artificiale che perturba le reazioni dell’organismo e il naturale decorso della malattia. Tuttavia Foucault riconosce alla clinica ha un ‘importanza ontologica: l’emergere della finitudine all’orizzonte della clinica rivela una struttura in cui per la prima volta diviene oggetto di conoscenza il fondo oscuro dell’esperienza: il non detto, il non pensato, il non ancora pensato. L’ospedale è il luogo simbolo delle contraddizioni umane, il vissuto dei “sani” e dei “malati” si mescola nell’unica domanda di senso circa il valore della vita e della dignità umana, e infine della morte. Quando ne si varca la soglia si scorge una realtà inconsueta, poco familiare, si scruta con perplessità e pensosità una umanità altra, un luogo in cui i corpi sono tutti uguali, imperfetti, dolenti, deformi, dove i dubbi più profondi ci inducono a chiederci fino a dove un essere umano può dirsi tale.

Era tutto il mondo di fuori a diventare parvenza, nebbia, mentre questo del Cottolengo gli sembrava il solo vero. Il mondo della bellezza svaniva all’orizzonte come un miraggio e Amerigo ancora nuotava per guadagnarsi questa riva irreale.[2]

Nel racconto di Calvino, Amerigo Orme  è uno scrutatore comunista, assegnato al seggio dell’ospedale Cottolengo di Torino, che dai brogli politici giunge a quelli metafisici: venendo a contatto con una realtà così inconsueta non può che porsi interrogativi sul valore della vita umana. Appena varca la soglia dell’ospedale è assalito da un flusso incessante di pensieri e dubbi, di fronte a “creature opache”, “all’Italia nascosta che sfilava per quella sala” si chiedeva che valore avesse la libertà e l’uguaglianza di fronte a quegl’esseri.

Il padre schiacciava al figlio le mandorle e gliele passava attraverso il letto, il figlio le prendeva e le portava lentamente alla bocca. Tenevano tutti e due le mani appoggiate alle ginocchia e le teste chinate in modo da continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: questo modo di essere è l’amore. [3]

Tutto appare sospeso, tutti i problemi del mondo fuori messi tra parentesi, e l’attenzione è puntata solo su l’essere umano in quanto tale: “un umano che arriva dove arriva l’amore”.

Dall’alto viene portato in basso, e per il quale, a ogni piano, c’è questa scadenza di gravità del male. Si trattava di trovare dal piano al piano la giustificazione falsa, l’inganno dei medici per portarlo da un piano all’altro. [4]

Questa volta è Giuseppe Corte il protagonista, nel racconto di Buzzati, che vede l’ospedale come il luogo dell’attesa in cui il tempo sembra dilatarsi a dismisura tra e la consapevolezza del suo trascorrere e il desiderio di dominarlo. Si è colti da un’ “ansia metafisica” di voler riuscire a controllare l’ignoto e si attende così un evento risolutivo, un’occasione propizia, ma la speranza ha come sfondo e orizzonte inevitabile la necessità di accettare anche l’imprevisto e l’inspiegabile come la morte. Un’attesa che è la vita stessa. Non a caso i diversi piani vengono visti come una progressiva discesa, man mano che si scende la gravità aumenta, sino a giungere alla morte (infatti l’obitorio si trova al piano terra). L’ospedale è una sorta di sanatorio dei malati nel tempo, un microcosmo dove la vita umana si divide tra aspettative e delusioni, fiducia e menzogna, salvezza e sofferenza.

Cos’è il brutto dell’ospedale? La malattia, forse? No. Il brutto è di vedere tutti gli altri che malati non sono. Invece se uno è moribondo  e gli altri sono già tutti morti, si sente un imperatore. E poi medici, assistenti, infermieri, ecc, tutti malati seriamente. I pazienti, al paragone, si sentono signori, si sentono sani. Si sentono? Diventano sani. Alle volte guariscono senza bisogno neanche di una pillola. E magari sono entrati che erano più di là che di qua.[5]

Un confine che risulta più sfumato nella clinica Ophelia dove tutti sono malati, anche medici ed infermieri. Essendo tutti partecipi della malattia in uno spirito di solidarietà, senza confini e limiti invalicabili, è messa a nudo l’umanità di tutti nel bene e nel male. L’ospedale diventa così, non un esilio, un inquietante ingranaggio che svela “quella condanna che ciascuno di noi forse porta iscritta in una particella del corpo”, bensì un luogo rassicurante, in cui regna la pace, la solitudine protetta, un affascinante lontananza e distacco da tutto. Anche se la malattia, come una lente di ingrandimento, esaspera la condizione umana sospesa tra miseria e grandezza, è in essa che l’essere umano deve cercare la libertà: liberi nella malattia, non dalla malattia. Liberi di essere se stessi anche di fronte all’estremo, al dolore, alla sofferenza, all’assenza di quell’umano che sembra essere scomparso nei volti e nei corpi degli “ospedalizzati” e che va ritrovato non attraverso lo sguardo clinico, ma unicamente  con l’occhio della pietas. Sono le risorse dell’essere umano a rendere vivibile quel microcosmo, la capacità di fare casa, rendere familiari gli ambienti, governare il tempo, intrecciare relazioni, essere abitante. Gli abitanti di “questo mondo a parte” e i “sani” sono uniti dallo stesso destino, non perché tutti in qualche modo sono malati, come voleva Freud, o perché nessuno è malato, come voleva Basaglia, piuttosto perché si è accumunati dalla stessa umanità. L’ospedale non è il migliore di mondi possibili, ma il mondo dove regna l’umano.

[1] Michel Foucault, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, 1969, Torino, Einaudi.

[2] Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore, 1963, Torino, Einaudi.

[3] Ivi.

[4] Dino Buzzati, I sette messaggeri, 2000, Milano, Mondadori.

[5] Dino Buzzati, L’ospedale malato.

Corpo sano e corpo malato

20 lunedì Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Corpo, Cura, Etica del corpo, Etica della cura, Etica della medicina, Filosofia della medicina, Malattia, Medicina, Salute

Il procedimento della medicina è identico in un certo modo a quello della retorica. In entrambe occorre dividere una natura, quella del corpo e dell’anima, somministrando al corpo farmaci e cibi per produrvi forza e salute, e all’anima discorsi e occupazione per trasmetterle persuasione e virtù.                                                                Platone

La salute non è più solo un bisogno individuale: è un valore che ha assunto un importante dimensione etica, sociale, politica e filosofica. Tali esigenze sono del tutto coerenti con l’asse centrale di evoluzione della cultura postmoderna, capitalista e consumistica, che assume come centrale l’ideale di benessere. Un benessere dapprima economico, inteso come accesso alla cultura, status sociale elevato, mobilità sociale e fisica, successo e autorealizzazione professionale, e poi psicofisico e relazionale oltre che corporeo. A partire dalla fine degli anni Sessanta la salute intesa come “assenza di malattia” e la cura come “riparazione dei guasti della macchina fisica” cedono il posto ad una visione sempre più orientata alla prevenzione, all’integrazione del fisico con lo psicologico e alla ottimizzazione dei potenziali fisici, mentali, relazionali (fitness, psicosomatica, integratori, centri benessere, fitness ecc.). Dunque il modello biomedico, fondato su un’impostazione riduzionistica, secondo cui la malattia è causata da fattori biologici identificabili è stato sostituito da quello bio-psicosociale, che assume una impostazione integrativa, di aspetti biologici, psicologici e sociali. L’antico proverbio “quando c’è la salute c’è tutto” che in origine indicava la mancanza di malattia come la base minima per essere soddisfatti, ritorna in auge come categoria onnicomprensiva “di tutto ciò che è necessario per una vita degna di essere tale”. L’espandersi del concetto di salute coincide con l’intensificarsi della sua rilevanza culturale e psicologica: il mito dell’eterna giovinezza o dell’immortalità induce sempre più a evitare la malattia, vista come una fatalità o punizione divina che rovina il corpo e la vecchiaia intesa come una patologia e non una fase della vita di crescita e cambiamento.

La salute esprime la capacità di adattarsi alle modifiche dell’ambiente, di crescere e invecchiare, di guarire quando si subisce un danno, di soffrire e di attendere serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro e perciò comprende anche l’angoscia e le risorse interiori per vivere con esso.[1]

La salute è un desiderio vivissimo che spinge sempre più gli individui a intense ricerche di autogestione, per un patrimonio troppo prezioso da affidare agli altri: il termine healthism indica proprio l’atteggiamento di scarsa fiducia nei medici, ricerca di percorsi alternativi, e di essere protagonisti attivi, consumatori anche in questo ambito. Alla salute si dedica tempo e spazio, si investe energia e denaro, come in una agenda setting; i mass media e il mercato della salute plasmano l’immaginario collettivo perché pescano in un sostrato di aspettative, ansie, angosce esistenziali, speranze di salvezza, debolezze, fragilità, tabù, stereotipi e pregiudizi, innescando illusioni e timori. La rilevante carica simbolica della malattia, che induce l’individuo a chiedersi: “Perché proprio ora? Perché proprio a me?”, una vera e propria indagine esistenziale, sembra quasi scomparsa in una società altamente tecnologizzata, disincantata dove l’utilità, il consumo, la velocità, l’efficienza impediscono di riconoscere un significato agli eventi naturali, come la malattia, perché trattati in modo sempre più tecnico. Il corpo è una macchina che se si guasta, occorrerà comprenderne unicamente la causa materiale; dunque l’unico orizzonte di senso è il proprio benessere corporeo apparentemente assicurato dal progresso scientifico.

È il senso dell’infinito o del sacro che non trova più un orizzonte metafisico al quale rivolgersi e cerca sicurezze nell’orizzonte tecnico. La nuova simbologia dello screening è parte di un surrogato di religione che ha i suoi sacerdoti negli scienziati e nei medici.[2]

La presenza della malattia è una presenza ingombrante per una società che cerca di superare ogni limite, facendosi carico delle promesse onnipotenti della tecno scienza. Nei paesi in via di sviluppo, ad esempio, la presenza di riti, concezioni cosmiche, forze divine ecc. rendono la salute e la cura strettamente ancorate ad un senso di espulsione, vergogna: si muore prima socialmente e poi biologicamente. Il concetto di health-field, campo sanitario, ha consentito di riconoscere una carattere di integralità e multifattorialità nella promozione della salute, di tipo olistico, cioè comprendente sia la dimensione biomedica ( biologia, assistenza sanitaria, cure) che quella culturale (ambiente, stile di vita) e relazionale (care). La realtà da comprendere è dunque un “intero”, il risultato di un intreccio di relazioni: la malattia non è solo un insieme di sintomi ( combinazione di una causa esterna con una interna) ma anche di significati che fanno rendono ogni quadro clinico assolutamente differente. Il binomio salute-malattia è allora una relazione sociale di valore: la salute presuppone una relazione adeguata del soggetto con l’ambiente, la malattia è l’alterazione di questo equilibrio, per cui il malato diventa un agente –in relazione – con, costituendo con il medico e i familiari una “comunità discorsiva”[3].

Migliaia di volte è stata proclamata la sentenza: “non vi sono malattie, ma malati”. Sarebbe meglio dire: “Vi sono malattie in malati”. Le “malattie”, le “specie morbose” sono reali, ma lo sono nel malato della cui vita e realtà fanno parte. La malattia individuale è quasi sempre il risultato dell’individualizzazione di una specie morbosa. Ebbene: come diventa reale questa “individualizzazione” della malattia? Come, di conseguenza, dovrà essere “individuale” la diagnosi?[4]

[1] Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, 2005, Boroli.

[2] M. Lütz, Il piacere della vita. Contro le diete sadiche, i salutisti a tutti i costi e il culto del fitness, 2008, San Paolo.

[3] Maria Teresa Russo, Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica, 2004, Rubbettino.

[4] Laìn Entralgo, La relactión médico-efermo.

Il corpo post-umano

20 lunedì Lug 2015

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Estetica, Etica, Etica del corpo, Postmodernità, Postumanità

Il dilemma dell’Occidente è un destino consegnato alla scienza, affascinante e drammatico; inarrestabile, segnato da una smisurata volontà di potenza, di manipolazione e profanazione della realtà.                                              Stefano Zecchi

Uno dei fenomeni che avevano attirato la mia attenzione era la struttura del’organismo umano, anzi, di qualsiasi organismo dotato di vita. Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Dopo notti e giorni di lavoro pervenni a scoprire le cause della generazione e della vita; no, di più, fui in grado di dare la vita alla materia inanimata. Mi domandai se dovessi tentare la creazione di un essere come me o di una struttura più semplice, ma la mia immaginazione, infiammata dal successo, non mi faceva dubitare di riuscire a dar vita a un animale complesso e meraviglioso come l’uomo. Vita e morte erano solo barriere ideali da infrangere per riversare un fiume di luce sul nostro mondo immerso nelle tenebre. Una nuova specie, molti esseri perfetti e felici avrebbero dovuto a me la loro esistenza.[1]

A distanza di due secoli, i progressi tecnologici e biomedici hanno di gran lunga superato i limiti della più fervida fantasia umana, rendendo possibili interventi sui processi della vita umana (nascita, cura, malattia e morte) animale e ambientale mai stati possibili fin ora: basti pensare alla clonazione, alle tecniche di riproduzione artificiali, all’interruzione di gravidanza, alla mappatura del genoma umano, all’ingegneria genetica, all’eutanasia, allo stato vegetativo. In tutti questi casi il corpo perde la sua dimensione di naturalità, per essere manipolato, controllato, programmato, sottratto al caso e alla contingenza.

Il mito assolutista della tecnologia medica prescinde dal considerare che la condizione umana ci rende coerenti al progetto evolutivo che ci consente d’essere resistenti per metà della vita, serbando la salute nell’interesse individuale, e che ci impone d’essere fragili per l’altra metà, producendo le malattie nell’interesse della specie predisposta a protrarsi e rinnovarsi. È una condizione umana comune a tutti i viventi, che soggiace alla ferrea legge di irreversibilità e non ritorno ad uno stato anteriore, per cui la guarigione (così come tutte le applicazioni mediche e tecnologiche) non è mai un ritorno allo status quo antea.[2]

Si ingenera così un delirio di onnipotenza scientista, più che scientifico, perché alimentato da uno spirito utopista, che venera la tecnocrazia e vaticina una futura era dell’oro nei termini in cui scrive Alvin Silverstein ne La conquista della morte: “Potremmo essere l’ultima generazione che muore (…) invecchiare è diventato anacronistico”. Alcuni studiosi ritengono che le sigle che hanno fin ora diviso la storia umana “a.C.” e “d.C.” cambieranno significato in: “avanti Clonazione” e “dopo Clonazione”. È la ricorrente ideologia tecno-medica di una quasi immortalità, versione fisica dell’immortalità metafisica.

Ecco un passante per la strada che ha delle lunghe braccia, degli occhi celesti, una mente dove si agitano pensieri che ignoro ma che forse sono mediocri. Non è né la sua persona, né la persona umana in lui che mi è sacra. È lui. Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto. Non violerei niente di tutto questo senza infiniti scrupoli. Se la persona umana in lui corrispondesse a quanto per me è sacro, potrei facilmente cavargli gli occhi. Una volta cieco sarà una persona umana esattamente quanto lo era prima. Non avrò assolutamente colpito in lui la persona umana. Avrò distrutto soltanto i suoi occhi.[3]

Questa immagine di Simone Weil secondo cui ogni organo, ogni elemento del corpo merita il medesimo rispetto a quella che si definisce “persona”, è una sorta di preludio alla cosiddetta  sacralità della vita, che sul presupposto di un disegno finalistico divino, individua nell’essere “persona” il connotato ontologico di ogni organismo umano, qualunque ne sia la fase di  sviluppo e la condizione, un connotato dal valore assoluto in base al quale la vita umana è intangibile e indisponibile alle manipolazioni medico-scientifiche di qualsiasi genere. Il segreto profondo della vita che un tempo sembrava essere il baluardo della natura che la scienza non poteva espugnare, un mistero che restava intatto oggi in gran parte viene svelato. Si sono varcate soglie prima considerate sacre e inespugnabili, si sono compiuti passi decisivi verso un mondo artificiale. In nome di una maggiore qualità della vita si riconosce totale libertà e autonomia nelle scelte degli individui con l’unico limite del danno provocato ad altri. Perché la tecnologia non sempre e necessariamente espropria la nostra umanità, ma ci responsabilizza, perché avendo come centrale la persone e le sue potenzialità ci rende protagonisti più attivi nella determinazione della nostra identità. L’autodeterminazione rappresenta, nelle parole di Stefano Rodotà, un punto di riferimento: un potere che è restituito nelle nostre mani anche di fronte all’avanzamento tecnologico, grazie al quale la persona appare nuovamente come soggetto morale. L’uomo come parte della natura ha la possibilità di intervenire sulla propria natura.

 

Il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura.[4]

La vocazione di andare oltre le frontiere dell’uomo caratterizza l’essere umano fin dall’antichità, ma il termine post umano è un neologismo recente, atto a indicare proprio la messa in discussione del concetto di umano e  l’alterazione delle sue caratteristiche più proprie, che vengono modificate o a perse. La natura biologica può e deve essere superata da interventi tecnologici: non costituisce più il limite delle possibilità dell’essere umano. Il postumanesimo o transumanesimo prevede la trasformazione della specie umana, grazie alle biotecnologie e nano-tecnologie, perché considerata come il primo gradino di una nuova era evoluzionistica post-darwiniana guidata dalla specie umana stessa.

 

Passando dal tempo che ritorna al tempo che invecchia, dal tempo ciclico della natura regolato dal sigillo della necessità al tempo progettuale della tecnica percorso dal desiderio e dall’intenzione dell’uomo, la storia subisce un sussulto. Non più decadenza da una mitica età dell’oro, ma progresso verso un avvenire senza meta. La progettualità tecnica, infatti, dice avanzamento, ma non senso della storia. La contrazione tra “recente passato” e “immediato futuro”, in cui si raccoglie il suo operatore, non concede di scorgere fini ultimi, ma solo progressi nell’ordine del proprio potenziamento. Null’altro, infatti, vuole la tecnica se non la propria crescita, un semplice sì a se stessa. L’orizzonte si spoglia dei suoi confini. Inizio e fine non si congiungono più come nel ciclo del tempo, e neppure si dilatano come nel senso del tempo. Le mitologie perdono la loro forza persuasiva. Tecnica vuol dire, da subito, cingendo degli dèi.[5]

Il postumano non implica necessariamente una obsolescenza dell’umano: partecipa piuttosto della redistribuzione di differenze ed identità – e il corpo postumano è il sismografo e l’epicentro di cambiamenti epistemici pervasivi. Il postumano è fonte di ripensamento radicale del soggetto della tradizione umanistica occidentale. Katherine Hayles suggerisce che il postumano non indichi la fine dell’umano, bensì la fine del soggetto umanistico liberale.

 

[1] Mary Shelley, Frankenstein, 1982, Milano, Mondadori.

[2] Giorgio Cosmacini, Prima lezione di medicina, 2009, Bari, Laterza.

[3] Simone Weil, La persona e il sacro.

[4] Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori, Angelo Petroni, Manifesto di bioetica laica, 1996.

[5] Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, 2002, Milano, Feltrinelli.

La pornografia

19 domenica Lug 2015

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Corpo, Donne, Estetica, Etica, Etica del corpo, Libertà sessuale, Oggettivizzazione del corpo, Pornografia

Sollecitati dall’impulso sessuale gli amanti rendono la persona altrui l’oggetto di un proprio appetito; possedutala e placata l’istinto, essi la scacceranno. Nella misura in cui l’uomo diviene un oggetto dell’appetito altrui, risultano soppressi tutti i moventi delle relazioni morali, ed egli è una cosa volta a placarlo e ad essere usato da ognuno.                                          Immanuel Kant

L’espressione pornografia significa letteralmente “scrivere su” o “disegnare prostitute”; generalmente l’aggettivo pornografico ha una connotazione fortemente negativa, ma i parametri per valutare la sua portata oscena o sessualmente esplicita varia a seconda dei luoghi, delle culture e delle epoche storiche. Williams definiva la pornografia come “la trattazione o rappresentazione in scritti, disegni, film, fotografie ecc., il cui scopo è primariamente quello di suscitare eccitazione sessuale in chi ne fruisce”. Questa definizione ci permette di escludere dal novero i manuali di anatomia o alcuni film, immagini ecc, che pur mostrando organi sessuali o scene di sesso esplicito, non siano del tutto osceni o offensivi. Non tutti sono d’accordo però, come West che introduce un elemento in più nella definizione: “la trattazione o rappresentazione in scritti, disegni, film fotografie ecc., il cui scopo è primariamente quello di suscitare eccitazione sessuale in chi ne fruisce in un modo che è da ritenersi, in senso rilevante, dannoso”. Il senso rilevante ha avuto diverse interpretazioni: è stato connesso all’immoralità per cui raffigurare atti “perversi” corrompe lo spettatore/cittadino e quindi in tutti i casi è illegittimo (conservatorismo religioso e politico); oppure perché contribuisce a diffondere una mentalità sessista e maschilista, istiga lo stupro e le molestie sessuali. La MacKinnon infatti introduce un ulteriore elemento alla definizione che diventa: “la trattazione o rappresentazione in scritti, disegni, film fotografie ecc., il cui scopo è primariamente quello di suscitare eccitazione sessuale in chi ne fruisce in un modo che è da ritenersi, in senso rilevante, dannoso per le donne”. Donne trattate come merce e oggetto in modo disumanizzante, che provano piacere nell’essere umiliate, nel provare dolore, nell’essere stuprate, legate, percosse, mutilate, in posture di servilismo, ridotte a parti dei loro corpi, sanguinanti o ferite sono il segno di una immagine oppressa e passiva della donna e sono lesive anche per gli uomini, perché si sostiene, sarebbero meno capaci di mantenere relazioni sentimentali stabili. La pornografia quindi genera reificazione: fa diventare le donne cose, cioè strumenti per il raggiungimento del piacere maschile, fungibili, violabili, proprietà, senza autonomia e soggettività, mera apparenza, esseri meramente carnali da guardare e usare, senza dignità. Dunque non permettendo alle donne di essere razionali e scegliere autonomamente rinforza la logica patriarcale. Accanto alla disumanizzazione  la pornografia produce personificazione, attribuisce cioè tratti umani a oggetti che umani non sono: gli uomini considerano le immagini come se fossero donne reali e questo svaluta la soggettività delle donne reali che assieme a quelle “finte” rientrano nella medesima categoria, donne ma non persone. Per la MacKinnon l’oggettivazione femminile deriva da una ineguaglianza tra i generi e da una visione distorta della sessualità: se lo vuole, un uomo può comprare e usare una donna, questo è il messaggio della pornografia che risulterebbe allora una forma pubblica di schiavitù sessuale. Secondo la prospettiva conservatrice, il cosiddetto paternalismo sia religioso che giuridico, di impronta personalista, la pornografia incoraggia la promiscuità, offende la castità, svaluta i valori tradizionali della famigli, della paternità e maternità e della monogamia, banalizza l’atto sessuale riducendolo alla dimensione fisica, fornisce una visione falsata della sessualità ai bambini e adolescenti, a cui manca una vera e propri educazione sessuale; per cui lo Stato è legittimamente autorizzato a intervenire nella vita privata del cittadino, per evitare questa ossessiva esibizione dei corpi e morbosa curiosità di vederli, perché considerati come reato contro la persona e contro il senso del pudore che dovrebbe permettere di resistere alle varie suggestioni. Secondo la prospettiva liberale invece, esclusi i casi di violenza, la legge non dovrebbe mai limitare l’autodeterminazione dei cittadini. La libertà di espressione non può essere limitata solo sulla base di ciò che pensa la maggioranza, ma solo se è dimostrabile che il suo esercizio danneggi nei fatti davvero qualcuno, non a livello morale. D’altra parte chi trova offensivo e degradante il materiale pornografico può semplicemente non usufruirne, perché di fatto non viene imposto a nessuno. La pornografia sarebbe un fatto privato che non causa un danno ai soggetti adulti consenzienti. Prospettiva contestata duramente dalla critica femminista, secondo cui la pornografia non è una legittima espressione di pensiero e non è neanche un semplice rapporto privato tra regista, produttore e consumatore, spettatore. Una giurista, Alice MacKinnon, e una scrittrice, Andrea Rita Dworkin, nel 1983 presentarono, negli Stati Uniti, una proposta di legge anti-pornografia, considerata “sfruttamento”, “propaganda”, “crimine” contro i diritti civili delle donne, proposta non accettata perché contraddittoria  al principio costituzionale della libertà di espressione, che appunto riguarda tutti anche i pornografi. Il loro obiettivo era quello di garantire alle donne uno strumento giuridico in caso di danni subiti e il riconoscimento della portata lesiva dei materiali pornografici, cioè che la pornografia fosse al principale causa della violenza sulle donne: rendere sanzionabile civilmente la produzione e il consumo di essa. Secondo il movimento femminista anti-pornografia essa procura danno perché, presentando come una forma di educazione al sesso, è coercitiva per le donne vittime e offensiva per tutte le donne, e per tutta la società. Le donne finiscono per interiorizzare quel modello di sessualità tanto da non sentirsi offese per nulla: la negazione di questa offesa è il sintomo di un grave danno subito, morale, psicologico e fisico. È vero anche che molte donne non si ritengono affatto sfruttate o svilite, ma affermano che la loro è una libera scelta. Per alcune femministe questa sarebbe una falsa testimonianza, perché la pornografia non può essere un’autentica professione e non viene mai scelta davvero liberamente (spesso sono le condizioni  economiche o la mancanza di altre possibilità lavorative ad esserne la causa). La campagna di MacKinnon e Dworkin non ebbe molto successo negli ambienti femministi, perché fornì una definizione troppo vaga di osceno e pornografico, al contrario suscitò polemiche anche da esponenti della cultura lesbica o da Betty Friedan, un importante esponente del femminismo statunitense. Il loro merito fu quello però di porre l’attenzione su forme di violenze in passato ignorate, come quella negli ambienti di lavoro; infatti nel 1986 la Corte Suprema degli Stati Uniti accettò la tesi della MacKinnon riguardo la molestia sessuale come forma di discriminazione pertanto sanzionabile e punibile (apprezzamenti verbali, sguardi insistenti, battute allusive al sesso, inviti e richieste di rapporti sessuali per un avanzamento della carriera, linguaggio volgare ecc.). Nel 1991, la Commissione europea ha varato un documento (n. 92/131/ CEF) in favore di politiche e codici di comportamento (in luoghi pubblici e privati) che prevengano le molestie sessuali, perché lesive della dignità e della libertà personale.

Il corpo violato

19 domenica Lug 2015

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Corpo, Donne, Estetica, Etica, Etica del corpo, Ideologia maschile della violenza, Potere, Relazione, Violenza, Violenza di genere

La nostra carne è fragile; qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, strapparla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre in uno dei suoi meccanismi interni.                                                       Simone Weil

La violenza è una dimensione politica: il corpo è il luogo della vulnerabilità, del desiderio, della mortalità, dell’azione e questo lo espone alla violenza. Rivendichiamo l’integrità e l’autodeterminazione dei nostri corpi, dimenticando che non sono mai solo nostri, hanno una imprescindibile dimensione pubblica. La relazione con gli altri è una dimensione primaria, la condizione del nostro “incarnarci”. La violenza sfrutta questo legame originario, di essere gli uni per gli altri, in quanto corpi. Attraverso la violenza si manifesta la vulnerabilità umana nel modo più terribile, minacciamo l’altro di danneggiarlo e annientarlo oppure veniamo consegnati in modo brutale alla volontà altrui: “la nostra vita è obliterata dalla deliberata azione degli altri”.[1] Esiste una forma peculiare di violenza: quella contro le donne. Una violenza che sembra rivolgersi ad esseri non reali, negati già in partenza, il che non produrrebbe nessuna ferita. La donna diventa agency, strumento dell’uomo. La violenza carnale contro le donne è sempre una violenza sessista. E la sessualità è un modo di essere spossessati, destabilizzati, di essere per l’altro e in virtù dell’altro. Nel mondo animale nessun maschio violenta la sua femmina. Il sesso viene chiamato piuttosto accoppiamento “controllato”, perché regolato da una serie di segnali biologici emanati dalla femmina. Gli esseri umani sono diversi. Il coito può avvenire 365 giorni all’anno e le femmine umane non “diventano rosa”. I segnali fisiologici animali sono stati sostituiti da quelli psicologici umani, più complessi. L’interesse sessuale può essere suscitato dal maschio in qualunque momento indipendentemente dalla disposizione della donna. Questo significa che il maschio umano può violentare. Approfitta della vulnerabilità della donna e della struttura fisiologica dell’atto sessuale (piacere, intimità e perpetuazione della specie), che implica, a livello anatomico, un’intromissione forzata. Esiste quindi una ideologia maschile della violenza, che sia essa carnale o psicologica; la donna, per conformazione fisica, non può praticare una violenza sull’uomo di tipo sessuale. La penetrazione violenta dell’uomo nel corpo della donna è la peggiore arma offensiva e lesiva dell’integrità fisica e morale, il trionfo della virilità maschile, il veicolo per l’affermazione di una forza superiore, di una conquista forzata della volontà altrui.

La scoperta dell’uomo che i suoi genitali potevano servire come arma per generare paura deve essere annoverata fra le più importanti scoperte dei tempi preistorici, insieme con l’uso del fuoco e le prime asce di pietra. Dalla preistoria ai nostri gironi lo stupro ha svolto una funzione critica. Si tratta più o meno che di un consapevole processo d’intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura.[2]

La violenza si rinnova di fronte all’apparente inesauribilità dei suoi oggetti: i corpi. Facendo leva sulla loro fragilità, cogliendoli indifesi, essa si misura con quanto di più umano ci contraddistingue e ci plasma. Quando la violenza attraversa il corpo, lo penetra, lo avvilisce, lo devasta, esso diventa il topos del suo trionfo, rivela il suo lato opaco, oscuro, “cosale”. La violenza spoglia l’essere umano della sua vitalità, lo riduce ad materia inanimata, inerte:

È vivo, ha un’anima; è, nondimeno, una cosa. Strana cosa una cosa che ha un’anima; strano stato per l’anima. L’anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è più nulla in essa che non patisca violenza.[3]

Un corpo violato smette di reagire, di trasalire, di sussultare, di fremere: è un corpo reificato, disumanizzato, de personificato. Il corpo – strumento non è certo un’invenzione attuale, ricordiamo gli schiavi, le corride, le vittime alle divinità, le lotte dei gladiatori ecc., ma ora assume un’inquietante risvolto legato alla beffa, alla deformazione, alla tortura, al vilipendio, al trionfo del volere dell’altro uomo, in definitiva al calpestamento di ogni dignità umana. Quando si viola un corpo si perde la dimensione della coscienza della complementarietà del femminile e maschile e si punta l’attenzione sulla dimensione esclusivamente genitale: annullare il femminile inglobandolo nel maschile, affermare ancora una volta la dicotomia sesso dominante, attivo e sesso dominato, passivo. La donna è cancellata, eliminata, oscurata. Negando lo status di soggettività, il consenso della donna a un atto sessuale è irrilevante e di conseguenza è legittimamente “violentabile”, “violabile”. Per evitare il circolo vizioso della violenza sarebbe opportuno riconoscere la vulnerabilità, proteggerla senza annientarla: quello che Judith Butler definisce un “incontro etico”[4], l’inscindibile legame con l’Altro da sé, un legame che costituisce ciò che siamo e che ci dà forma. Sarebbe troppo semplice concludere che la violenza si limita a conferire compiutezza ad un discorso già in opera, così che il discorso sulla disumanizzazione darebbe corpo a pratiche violente. La disumanizzazione invece nasce ai limiti della vita discorsiva, dal rifiuto del discorso (alcuni esponenti mediatici si indignano di fronte al neologismo femminicidio, ridotto ad una semplice notizia giornalistica), perché senza un discorso non c’è alcun riconoscimento dei fatti. “Tocca agli uomini badare che non venga fatto del male agli uomini”[5]: è la dimensione puramente materiale, terrestre, carnale, “troppo umana”che ci accomuna tutti e ci espone sempre al pericolo della sofferenza e del dolore, che dovrebbe sensibilizzarci al rispetto reciproco, alla responsabilità e al “solo dovere eterno, quello verso l’essere umano in quanto tale”.[6] “Il problema della violenza resta ancora molto oscuro”[7], ma qualcosa evidenzia: la miseria umana. Chi fa violenza è un umano definitivamente perduto.

[1] Judith Butler, Vite precarie.

[2] Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani, Milano, 1976.

[3] Simone Weil, L’Iliade, poema della forza.

[4] Judith Butler, Vite precarie.

[5] Simone Weil, La persona e il sacro.

[6] Gaeta, Bettinelli, Dal Lago, Vite attive, Simone Weil, Edith Stein, Hannah Arendt, Feltrinelli, Roma, 1996.

[7] G. Sorel, Reflections on Violence, New York, 1961.

Corpo e amore: le relazioni “tascabili”

19 domenica Lug 2015

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Amore, Corpo, Estetica, Etica, Etica del corpo, Relazione

Il piacere vuole l’eternità di tutte le cose, vuole profondità, profonda eternità.                                          Friedrich Nietzsche

 

L’anima palpita e fermenta in ogni parte quando cominciano a spuntarle le ali. Quando rimirando la bellezza d’un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono, se ne nutre, se ne riscalda, cessa l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza inaridisce, smania per l’assillo ed è tutta affannata. Così sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, non trova sonno di notte né riposo di giorno e anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, prende respiro. Ha scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima è ciò che gli uomini chiamano amore.[1]

Pare che l’uomo postmoderno non sia così disposto a tanti patimenti, piuttosto preferisca essere sciolto da qualsiasi legame, in particolare legami fissi: un perfetto Der Mann ohne verwandtschaften. Non avendo nessun legame indissolubile, non gli resta che connettersi per colmare il vuoto lasciato da vecchi legami, perché solo in questo modo i legami che instaurerà potranno essere “liquidi”, senza nessuna consistenza reale. In un mondo di individualismo rampante non c’è nulla di più ambivalente delle relazioni: uomini e donne contemporanei si dividono tra il sogno di instaurare relazioni e il timore che queste comportino oneri e compromettano la loro libertà.

Non sorprende che le relazioni siano uno dei principali motori del “boom delle consulenze”. Un’incapacità di scegliere tra attrazione e repulsione si riflette in una incapacità di agire: gli esseri umani che vengono a trovarsi in tale condizione possono chiedere aiuto a degli esperti in materia. Ciò che sperano di sentirsi dire è come far quadrare il cerchio, come avere la botte piena e la moglie ubriaca, come costringere la relazione a dare senza prendere, appagare senza opprimere. I loro suggerimenti abbondano, sebbene quasi sempre facciano poco più che elevare la pratica comune al livello della conoscenza comune e di elevare quest’ultima al livello di erudita teoria.[2]

Il concetto di relazione è piuttosto confuso, ancor più quello di amore. Per questo motivo  forse si preferisce parlare di “connessioni” piuttosto che di “relazioni” e “rapporti umani”, e di “reti” piuttosto che di “partner”. La rete, traduzione di web, ovvero ragnatela, è un contesto privo di centro di controllo, allo stesso tempo tutto è centro e periferia, è possibile entrare ed uscire con la medesima facilità: connettersi e sconnettersi godono del medesimo status in questo “shopping sentimentale”.

È un modo per prendere contato con gli altri mantenendo le distanze. Nelle comunità tradizionali prima si incontra la gente e poi la si conosce, in quelle virtuali prima si conosce la gente, poi volendo, la si incontra. È un luogo in cui la gente tende a svelarsi molto più intimamente di quanto sia disposta a fare senza la mediazione del video o dello pseudonimo.[3]

Le relazioni virtuali sono facili da instaurare e facili da troncare. Una connessione indesiderata rispetto ad una relazione indesiderata ha un minor peso, senza impegno e responsabilità: “Puoi sempre premere il pulsante cancella”.

Le relazioni virtuali dettano il modello che esclude tutti gli altri tipi. Ciò tuttavia non rende gli uomini più felici. Essere sempre in movimento diventa un obbligo. Andare sempre di corsa si trasforma in una fatica massacrante. E quella fastidiosa incertezza e confusione opprimente, che la velocità avrebbe dovuto spazzare via, si rifiutano di sparire. La facilità del disimpegno e l’interruzione su richiesta dei rapporti non riduce i rischi, semplicemente li distribuisce – insieme alle angosce che sempre li accompagnano – in modo diverso. Si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro.[4]

Il noto quadro di Renè Magritte, Gli amanti, potrebbe essere il paradigma dell’amore postmoderno: due amanti si baciano con il volto coperto, ovvero un’unione senza volto, unione di corpi anonimi, senza uno sguardo reciproco, “lo sguardo che fa essere”.[5] È la resa dello sguardo invece che comporta la rinuncia all’oggettivazione, dimostrando avvicinamento, desiderio, dono reciproco garantendo allo stesso tempo la irriducibile unicità degli amanti. Nella prossimità dei volti si dà la sintesi della relazione personale, capace di cogliere sia l’evidenza corporea che l’io che la trascende. Allo stesso modo la celebre scultura di Alberto Giacometti, Il naso, potrebbe essere l’espressione del disagio dell’uomo contemporaneo di stabilire relazioni: una testa con un naso lunghissimo è sospesa in una gabbia; se la si osserva da vicino di lato essa appare deforme, per vederla nella giusta prospettiva bisogna guardarla di fronte, mantenere le distanze. Il corpo, da tramite per l’incontro diventa un ostacolo: per cogliere l’immediatezza bisogna avvicinarsi, per conoscere la persona intera occorre distanziarsi, andare oltre la consistenza materiale.

In una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, ricette infallibili, garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare l’arte di amare è la promessa di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce. Senza umiltà e coraggio non c’è amore. Sono qualità indispensabili quando ci si addentra in una terra inesplorata e non segnata sulle mappe.[6]

Le relazioni si instaurano  sempre meno per effetto di un autentico impulso d’amore e sempre più, invece, in base al desiderio e la brama di consumare: l’amore vuole possedere, il desiderio consumare. L’amore è una rete gettata sull’eternità, il desiderio è uno stratagemma per risparmiarsi l’onere di tessere la rete.[7] I legami affettivi sono liquidi, deboli e continuamente mutevoli. Non si sceglie qualcuno per sempre, “finché morte non ci separi”, ma finché non si trovi qualcosa di meglio. Le promesse di fedeltà alla relazione sono “insignificanti nel lungo termine”.[8]

La relazione “tascabile”, invece, è dolce e di breve durata. La tieni in tasca, puoi tirarla fuori all’occorrenza e rificcarla in tasca quando non serve più. È l’incarnazione della istantaneità e della smaltibilità. La convenienza è l’unica cosa che conta, e richiede mente lucida, non cuore caldo. Tieni sempre la tasca libera e pronta. Sentirai presto il bisogno di infilarci qualcosa.[9]

La relazione tascabile presuppone una strumentalizzazione della relazione stessa: giungere ad un’unione unicamente sessuale che senza una comunione con l’amore non può che essere effimera e transitoria. L’incontro sessuale è un primo passo verso una relazione o il suo capolinea? Un processo significativo o un episodio estemporaneo? Che tipo di impegno implica l’unione dei corpi? Il narcisismo e l’edonismo liquido-moderni raccomandano mantelline leggere e aborrano le gabbie di ferro, l’imperativo dominante è piacersi.

Ogni piacere vuole l’eternità di tutte le cose, vuole miele, vuole feccia, vuole ebbra mezzanotte, vuole tombe, vuole la consolazione delle lacrime, vuole tramonti dorati, che cosa non vuole il piacere! Esso è più assetato, più affettuoso, più spaventoso, vuole se stesso, morde se stesso, vuole amore, vuole odio, così ricco che ha sete di dolore, di inferno, di umiliazione, di mondo, questo mondo! Oh felicità, oh dolore! Spezzati, cuore! O uomini superori imparate che ogni piacere vuole eternità, profonda, profonda eternità.[10]

[1] Platone, Fedro, in Opere complete, vol. III, trad. it. di P. Pucci.

[2] Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Editori Laterza, Bari, 2011.

[3] Howard Rheingold, Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio, Sperling & Kupfer, Milano, 1994.

[4] Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Editori Laterza, Bari, 2011.

[5] Mario Manfredi, L’io fallibile. Identità e disconoscimento, Utet università, Torino, 2011.

[6] Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Editori Laterza, Bari, 2011.

[7] Ivi.

[8] Adrienne Burgess, Will you love me tomorrow. How to ensure your love will last, Random House, 2011, cit. in “Guardian weekend”.

[9] Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Editori Laterza, Bari, 2011.

[10] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra,  Adelphi, Milano, 2010.

Corpo e identità: la moda come fenomeno e come sistema

19 domenica Lug 2015

Posted by FlorianaChicco in Etica ed estetica del corpo

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Abito, Corpo, Donne, Estetica, Etica, Etica del corpo, Moda

Nel disperato rispecchiamento di un sé, nell’espressa imitazione di un modello alla moda, un’imitazione nell’ordine del comportamento, dell’abbigliamento, della scrittura, del modo di parlare o di vivere, sta la chiave per comprendere il manierismo o la contorsione in quanto modi privilegiati di un in autentico essere-nel-mondo.                                                                    Ludwig Binswanger

La moda ha conquistato nel mondo postmoderno una vera e propria dignità ontologica, un dominio “assolutista”, o se si vuole autenticamente totalitario. Si potrebbe dire che la moda incarni quasi allo stato puro la preferenzialità (ma non la “migliorità”), che sia l’elemento proairetico (dal greco proairesis: “preferenza”, “inclinazione”) per eccellenza, quello più visibile, ma per definizione effimero, mutevole, incostante. Un’autentica forza propulsiva che induce l’uomo a scegliere senza un motivo razionale, etico o estetico: “una ragione pura di preferenza”[1]. Il linguaggio della moda ha una particolarità, quello di essere una istituzionalizzazione a priori, non per gradi, ma quasi spontanea. Viene deciso uno schema di qualcosa, che può essere un abito, una calzatura ecc, in base alla preferenza solo del suo autore, e prima ancora che sia apparso viene imposto dai mass media, dalla pubblicità, con un potere che sembra quasi magico, perché irrazionale e non analizzabile gnoseologicamente.

Le mode hanno un inizio spesso imprevedibile, tumultuoso; pescano nell’elemento inconscio e irrazionale della natura umana. Il bisogno di cambiamento, la sete del nuovo, l’orrore del già visto, insito nel più elementare meccanismo psichico dell’uomo oggi, fanno sì che il terreno per l’attecchimento della moda sia sempre pronto.[2]

“Essere di moda” o possedere qualcosa “all’ultima moda” è sintomo di prestigio sociale, contribuisce a determinare il proprio status symbol (questione analizzata da autori americani soprattutto in riferimento all’abitazione e all’automobile) indipendentemente dalla capacità di discernere lo stile dallo styling (Kitsch). Seguire la moda non è sufficiente per essere in, così come non lo è appartenere ad una elevata classe sociale per risolvere i problemi relativi al gusto o del giusto indirizzo preferenziale. La moda intesa come fenomeno è una sorta di evoluzione dalla “tensione verso il bello” al cosiddetto “buon gusto”; essa è alimentata dal bisogno di distinzione, essere originali, innovativi, (ricerca della identità) e di appartenenza, ricercare il dettaglio che ci fa essere come gli altri (ricerca dell’alterità); e si caratterizza inoltre da un elemento ludico, una messa tra parentesi delle regole, della serietà, del totalitarismo del lavoro che necessita di gioco ed evasione. La moda come sistema è tipica della società di massa, caratterizzata dalle ferree leggi del business: produzione, distribuzione, e mercato. Il sistema ha l’intento di sorprendere il pubblico con le novità piuttosto che educarlo a scegliere secondo l’eleganza. L’abito, ad esempio, anziché rafforzare la propria identità, diventa espressione di impersonalità: il dominio delle griffe o dei brand ha trasformato le persone in “manifesti pubblicitari ambulanti” scrive Enzensberger ne il Necrologio della moda, crea delle élite, escludendo chi non conosce o non utilizza quei brand e considera il lusso non come una ricerca raffinata delle rarità, bensì solo di ciò che è costoso. La moda, dove l’unica regola è quella del mi piace e mi sta bene, viene oggi investita del ruolo di artefice del gusto, un tempo assegnato all’arte, guida nelle percezione della bellezza universale. La moda alimenta una cultura del corpo – veste: un tempo l’abito serviva  a coprirsi, a proteggere l’intimità, a esibirsi, a esprimere la propria identità e personalità (non è un caso se le ideologie volte a esaltare il valore della collettività abbiano imposto uniformità nell’abbigliamento oppure le rivendicazioni sono sempre accompagnate da abiti insoliti), era un indizio, un segno per comunicare con gli altri, aveva un valore performativo, faccio qualcosa indossando quell’abito o viceversa quell’abito mi induce a certi atteggiamenti; oggi più che vestirsi sarebbe opportuno parlare di travestimento, cioè nascondimento o esaltazione del sé, perché ci si affida più all’apparenza, (del resto il significato di look è sembrare), alla silhouette, al portamento, al maquillage, al corpo “griffato” e al corpo “prêt-a-porter, dove la taglia è una sorta di soglia esistenziale, un corpo “unisex”, senza differenze sessuali, un corpo liquefatto direbbe Bauman. La perfezione richiesta dalla moda non è altro che il mito della riproduzione in serie, e fa del corpo-veste quello che Codeluppi chiama “involucro sfavillante, luccicante sugli scaffali delle vetrine”.

Se l’uomo non vorrà soggiacere alle mode, bisognerà che sappia esercitare il proprio criterio proairetico al di sopra di quello che gli viene subdolamente imposto, tanto nei più frivoli settori del costume, quanto nei più seri e decisivi della politica e della società. [3]

Occorre recuperare il valore della narratività del corpo, portatore di una storia specifica raccontata attraverso il corpo stesso, e il valore simbolico del corpo, portatore di un senso espresso dal tutto e non dalle singole parti. Solo se l’abito rafforza l’espressività del corpo, è un prolungamento di esso, allora la moda sarà un’arte del vestire, capace di orientare lo sguardo sulla persona nella sua interezza e a conservare un giusto equilibrio tra l’abito e il corpo, come diceva Coco Chanel: “quando la donna è mal vestita si nota il vestito, quando è ben vestita si nota la donna”.

[1] Gillo Dorfles, Dal significato alle scelte, Alberto Castelvecchi Editore Srl, Roma, 2010.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

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